La notizia della morte, il 10 gennaio di quest’anno, del biologo inglese naturalizzato americano Oliver Smithies (1925-2017), premio Nobel per la medicina 2007, rimanda subito ad un altro genetista, ma di origini italiane (Fig.1), il veronese Mario Capecchi (1937). Residente negli Stati Uniti dall’età di 8 anni e cittadino americano, ha condiviso il Nobel per la tecnica del gene targeting con Smithies e con Martin John Evans (1941), altro biologo britannico. Il cognome italiano associato al premio Nobel, ci dà una sferzata di orgoglio nazionale e ci regala la possibilità di condividere emotivamente, anche a distanza di tempo, un evento così importante.
Fig.1 Mario Capecchi
Pochi sono stati gli scienziati italiani che sono arrivati al traguardo del Nobel, ma tra questi molti che si erano formati in ottimi licei ed università italiane, si sono dovuti trasferire per lavoro fuori dall’Italia, in paesi che offrivano, e continuano ad assicurare, un ambiente più recettivo e accogliente. Basti qui ricordare, in ambito medico biologico, i casi di Salvatore Emanuele Luria (1912-1991), Renato Dulbecco (1914-2012), Rita Levi Montalcini (1909-2012). Ma per Mario Capecchi il destino aveva in serbo ben altro! A leggere la sua biografia, o ascoltando dalla sua viva voce il racconto della sua travagliata infanzia, sembra di scorrere le pagine di un romanzo di Dickens, con un finale però che ha il sapore di una grande rivincita, di un inaspettato trionfo. Mario Capecchi vive e insegna nella Università statale dello Utah, a Salt Lake City, quanto di più distante si possa immaginare dalla valle del Po che lo ha visto nascere e vagabondare da bambino, cercando di difendersi con astuzia dalla crudeltà dei contadini che lo scacciavano dai campi, elemosinare un rifugio e un pezzo di pane per sopravvivere.
La vita romanzata del Nobel che ha un nome italiano, ma che conosce solo poche parole della nostra lingua, ha avuto un ulteriore appendice che la rende ancora più intrigante. Il clamore e la notorietà, seguiti all’assegnazione del premio (Fig.2), hanno permesso a Mario Capecchi di entrare in contatto con molti dei compagni della sua infanzia, bambini che come lui hanno vissuto, in quei tempi lontani, momenti di abbandono e di privazione. Ma la cosa più sorprendente è che il Nobel per la medicina ha scoperto di avere una sorella che non aveva mai conosciuto.Marlene Ramberg-Bonelli, questo il nome della donna, è figlia di Lucy Ramberg, la madre americana di Capecchi. Come Mario, anche Marlene venne abbandonata dalla donna per mancanza di mezzi e data in affidamento a una famiglia del Renon, un comune della provincia di Bolzano.
Ma contrariamente a quanto accadde al futuro ricercatore, alla sorella la vita riservò un destino migliore. Mario dovette andarsene dall’altipiano e dalla famiglia che lo ospitava perché i soldi lasciati dal padre per allevarlo erano terminati. Marlene trovò invece due splendidi genitori adottivi che l’amarono e si presero cura di lei, assicurandole una vita dignitosa. Nata nel 1939 da una relazione tra Lucy Ramberg e il dottor Robert Scheuer emigrato dopo qualche anno in Brasile, la piccola fu affidata alla famiglia sudtirolese del ferroviere Max Bonelli e di sua moglie Luise Linder. Nel 1941 i Bonelli si trasferirono in Austria e i destini dei due fratelli si divisero in modo definitivo. Nel 2008, con la collaborazione del quotidiano in lingua tedesca Dolomiten, Marlene e Mario si sono potuti incontrare. Si può solo immaginare il flusso intenso di emozioni che li ha travolti, mentre nel raccontarsi le storie delle loro vite, cercavano di recuperare un così lungo periodo di separazione.
Fig.2 Mario Capecchi durante la lezione magistrale
tenuta in occasione della consegna del Premio Nobel
per la Medicina nel 2007 (Foto: Nobelprize.org)
Un’infanzia piena d’insidie… e poi finalmente la luce.
Mario Capecchi è nato a Verona il 6 ottobre del 1937, da una poetessa bohémien figlia di artisti che aveva insegnato alla Sorbona, e da Luciano aviere volontario in Africa che lo lasciò orfano all’età di quattro anni. La madre, dopo la pubblicazione delle leggi razziali del 1938, prese posizione attiva contro il regime distribuendo volantini antifascisti e antitedeschi.
Questa sua attività le costò l’arresto da parte della Gestapo e la deportazione a Dachau come prigioniera politica. Era il 1941 e il futuro Nobel assistette, all’età di quattro anni, alla traumatica carcerazione della madre. Prima di partire per la Libia suo padre, con una avvedutezza encomiabile, aveva contattato una famiglia di contadini altoatesini, offrendo loro dei soldi perché ospitassero il piccolo Mario nel caso fosse capitato qualcosa a lui e a sua moglie. I contadini tennero con loro il bambino per un anno, poi lo cacciarono via dicendogli che i soldi messi a disposizione dal padre erano finiti. Cominciò così per il piccolo Mario un periodo di vagabondaggio tra Bolzano e Verona. Una vita di espedienti e di rifugi di fortuna. Dopo qualche tempo incontrò una banda di altri piccoli senza genitori che sopravvivevano rubando ed elemosinando qualche soldo e vi si aggregò. Nel 1945 si ammalò
Fig.3 Mario Capecchi da giovane
gravemente di tifo evenne ricoverato, da uno sconosciuto buon samaritano, nell’ospedale di Reggio Emilia dove venne curato. Ed è lì che lo ritrovò sua madre, all’età di otto anni (Fig.3). Dopo la liberazione dal campo di concentramento, Lucy Ramberg era tornata in Italia e si era messa sulle tracce del figlio. L’aver ritrovato il suo bambino dette alla donna la forza e la determinazione di dare una svolta alla sua vita e decise in pochi giorni di emigrare in America, dove viveva suo fratello Henry Ramberg. I due s’imbarcarono su una nave di profughi e arrivarono a New York, passando per Ellis Island, la tappa obbligata di tanti immigrati. Lo scenario che si aprì davanti al piccolo sembrava sospeso tra sogno e realtà. Suo zio Henry li fece salire su un treno diretto a sud e dopo un viaggio di alcune ore madre e figlio si ritrovarono a Princeton, nella cui università Henry Ramberg insegnava fisica. Era l’ateneo in cui aveva insegnato anche Albert Einstein e Mario Capecchi, dopo anni, ricorderà di aver visto quello stravagante professore con i capelli lunghi e una pipa sempre attaccata alla bocca. Lo zio lo iscrisse a una scuola elementare e il piccolo Mario si trovò immerso in un ambiente a lui estraneo, di cui non conosceva le regole e con enormi difficoltà da superare per la lingua. Affrontati gli ostacoli con volontà ed intelligenza, il futuro Nobel si iscrisse ad un liceo pubblico di New York e poi all’Università, nel piccolo e molto “liberal” Antioch College nell’Ohio dove si laureò in Chimica e Fisica. Ma ben presto il giovane scoprì la passione per la biologia molecolare, e grazie a una borsa di studio, entrò alla prestigiosa università di Harvard, dove incontrò James Watson, uno dei padri della genetica e scopritore della struttura del DNA che sarà il suo relatore di tesi di dottorato. In occasione del conferimento del Nobel, l’8 ottobre 2007, Mario Capecchi ha dato una spiegazione del perché aveva abbandonato la fisica per la biologia molecolare:
«Negli anni ’60, la fisica era una big science, si faceva in grandi gruppi e le grandi innovazioni teoriche in quel campo risalivano agli anni “20” e “30”… Io cercavo una disciplina scientifica in cui il singolo ricercatore potesse mettersi in gioco direttamente nei suoi esperimenti».
Il premio Nobel è stato ospite, il 13 ottobre di quest’anno 2017, della XV edizione del Festival BergamoScienza. In questa occasione, rievocando la sua avventurosa infanzia, davanti al numeroso pubblico di giovani ha detto tra l’altro:
«I bambini sono molto fortunati. Non si domandano chi sono. Accettano semplicemente il presente… io sapevo che quella era la mia vita e che dovevo sopravvivere, non mi ponevo domande sul senso delle cose. Tutto ciò di cui mi preoccupavo era come procurarmi cibo e vestiti, giorno per giorno. Una volta negli Stati Uniti mi ritrovai a vivere dal fratello di mia madre, in una comune. Passai dall’essere completamente solo all’avere decine di genitori. Era un sistema molto collaborativo e mi ha insegnato a lavorare con gli altri. Fino ad allora ero solo sopravvissuto…».
Il contributo dato alla Biologia e alla Medicina da Mario Capecchi, e il prestigioso riconoscimento che ne è derivato, non possono prescindere dalle particolari esperienze che hanno segnato la sua infanzia. Sarebbe bastato poco, e la vita di questo illustre emigrante italiano avrebbe potuto prendere una strada senza sbocco e senza storia! La fisica o la chimica hanno perduto forse un loro possibile protagonista, ma la genetica e la biologia molecolare se ne sono avvantaggiate e di questo possiamo essere ben soddisfatti.
La tecnica del gene targeting
Per introdurre il campo d’indagine che ha portato Mario Capecchi al traguardo del Nobel si può partire dalle sue stesse parole. Nell’ottobre del 2012, in occasione di un incontro organizzato a Bologna dalla Fondazione Europea per la genetica, lo scienziato americano ebbe una serie di colloqui con giornalisti scientifici ai quali espose gli aspetti salienti del suo lavoro. Ecco un breve passo preso da quell’intervista:
«Il mio principale contributo è stato quello di sviluppare una tecnologia per modificare un gene specifico che funzionasse bene nei topi. Per esempio, se dopo aver mutato un certo gene vediamo che un dito sparisce, vuol dire che quel gene è associato in qualche modo alla presenza delle dita. Negli esseri umani sappiamo che ci sono almeno 5000 malattie associate a un singolo gene. Un esempio è la fibrosi cistica. I bambini ammalati avevano enormi problemi a respirare e di conseguenza a crescere e diventare adulti. Ora che il gene è stato identificato, è possibile sviluppare nuove terapie. E già oggi, le persone ammalate di fibrosi cistica stanno molto meglio di quanto non stessero qualche anno fa. La funzione di quel gene è stata compresa, la prima volta, proprio su un topo. E questo è vero per molte altre malattie, come il cancro o le malattie neurodegenerative. Molte hanno almeno una componente genetica e quindi possono essere studiate con questa tecnica».
La scelta dei topi come organismi modello è stata dettata dal fatto, noto ormai da tempo, che il topo e l’uomo condividono circa il 98% di geni. Studiare i geni nei topi rende quindi possibile fare delle inferenze molto dettagliate sulla funzione dei corrispondenti geni umani. Capecchi, insieme ai suoi colleghi inglesi Smithies ed Evans, è riuscito a mettere a punto un meccanismo di silenziamento sostituendo un determinato gene con uno inattivo, mediante il bersagliamento genico (in inglese targeting). La sostituzione si realizza mediante ricombinazione omologa, meccanismo che avviene durante la fase S della meiosi tra cromosomi omologhi e che in mutate situazioni rende possibile anche la riparazione di eventuale DNA danneggiato (Fig.4).
Fig.4. Integrazione sito specifica
I passaggi del procedimento per provocare il silenziamento genico nel topo Knock-out prevedono la scelta di un segmento di DNA esogeno da inserire in un punto specifico del genoma murino, per sostituire il gene che si vuole silenziare. L’integrazione del gene modificato avviene nelle cellule staminali embrionali prelevate da una blastocisti di topo, e mantenute in cultura in vitro su fibroblasti. L’inserzione in esse del transgene (gene preparato in laboratorio) può essere effettuata tramite elettroporazione o infezione retrovirale. La prima metodica prevede la somministrazione alla cellula di una piccola scarica elettrica con la conseguente modifica della permeabilità di membrana. La seconda tecnica introduce il DNA esogeno nelle cellule staminali utilizzando come vettore un retrovirus. Come marcatori cellulari vengono utilizzati il gene per la resistenza ad alcuni antibiotici, come Igromicina o G418 geneticina, o quello della timidina chinasi (TK), un enzima che catalizza la fosforilazione dei nucleosidi che debbono essere inseriti in un DNA virale. L’esposizione delle cellule staminali ad un terreno di coltura contenente l’antibiotico o il ciclovirus sensibile alla TK, permettono di individuare il gruppo di staminali che ha incorporato il transgene, cellule quindi che sono idonee a essere reinserite nella blastocisti (Fig.5)
Fig.5 Marcatori che accompagnano il gene inattivo da trasferire
Questa metodologia, resa possibile dalle ricerche di Mario Capecchi e colleghi, ha molte applicazioni in medicina, come lo stesso scienziato ricorda nell’intervista prima riportata a proposito della fibrosi cistica. Attraverso la tecnologia gene targeting si può costruire, infatti, qualsiasi modello di malattia genetica umana in animali da laboratorio, scegliendo quale gene silenziare o modificare, con il risultato di poter contare su nuovi approcci a terapie geniche.
Nel 1969 Capecchi è diventato assistente al Dipartimento di Biochimica di Harvard e nel 1971 professore associato alla Harvard School of Medicine. Nel 1973 si è trasferito all’Università dello Utah, dove tuttora lavora. Collabora dal 1988 anche con l’Howard Hughes Medical Institute ed è membro della National Academy of Science. Tra i vari riconoscimenti italiani, l’Università di Firenze nel 2004 gli ha conferito la laurea honoris causa in medicina e chirurgia. L’ateneo di Bologna, nel marzo 2007, solo qualche mese prima del conferimento del Nobel, (Fig.6) gli ha assegnato la laurea ad honorem in biotecnologie mediche e nel 2012 il prestigioso premio Nettuno d’Oro. Inoltre, il 6 aprile 2017, Mario Capecchi ha ricevuto dall’Università di Pavia la medaglia Teresiana, ambito riconoscimento che l’ateneo lombardo riserva ai suoi docenti più prestigiosi.
Fig.6 Diploma del Nobel assegnato a Mario Capecchi nel 2007
L’ultima volta che Mario Capecchi ha visto sua madre è stato quarant’anni fa. Di lei gli è rimasta qualche foto sbiadita, e in alcune scatole polverose, molte poesie con richiami alla sofferenza, al dolore della guerra e alla sua sfortunata militanza politica. In una recente intervista il premio Nobel ha riferito che quei messaggi, provenienti da un così remoto passato, gli procurano ancora una emozione profonda:
«Ogni tanto rileggo i suoi versi, ma quello che conta sono i ricordi. La mente ci permette di estrapolare un momento e farlo rivivere come fossimo ancora lì. Conserviamo i ricordi di chi ha modificato la nostra vita, di chi ha contribuito ad evolverla. E ciò avviene anche quando la morte pone un limite all’esistenza».
Poi Capecchi ritorna al presente, ai progetti che lo riguardano:
«Una produttrice italiana sta iniziando a lavorare all’idea di trarre un film dalla mia vita. Credo sia una vicenda importante da raccontare perché semplicemente darà speranza alla gente. Aiuta a capire che c’è una luce alla fine del tunnel, anche quando la situazione sembra davvero disperata per ognuno di noi. La vita ti dà delle opportunità. Io le ho avute e sono stato fortunato perché mia madre sarebbe potuta morire e invece è sopravvissuta, mi ha ritrovato e ha messo insieme le risorse per arrivare in America. Ecco quello che ogni bambino dovrebbe avere: delle opportunità».
Il messaggio che ci viene da questo grandeitaliano credo meriti di essere conosciuto e condiviso da tutti, ma soprattutto dai giovani. Non solo per la sua forte valenza scientifica, ma soprattutto per la straordinaria ed emozionante carica di umanità.
Bibliografia e sitografia
Capecchi M., 1994. Le Scienze n° 309, Roma
Zucconi. V., 2007, Ero un ragazzo di strada, mia madre mi ha salvato in: www.repubblica.it